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Rione Croce Bianca: il posto dove ritornare sempre… fedele!

Che la Quintana rappresenti un motore locale di promozione sociale è ormai una questione indiscutibile. Che i rioni però, intesi come comunità di coesione possano divenire soggetto attivo nell’ambito della (re)integrazione è una questione certamente meno discussa, ma da molti vissuta in prima persona. 

Dopo dodici anni trascorsi all’estero, tornare a Foligno fu una questione piuttosto complicata. Alle porte dei 14 anni il mondo si fa più complesso, gli amici, i primi amori, la scuola, lo sport. Il ritorno a Foligno infatti sembrava suggerire tutto fuorché un nuovo inizio e Il 2007 segnò il periodo che potrei definire “della ribellione”. E come ogni storia di ribellione che si rispetti, tutto ha inizio con dei complici e soprattutto con una base operativa. Base operativa che andava cercata vicino casa, con gli amici dell’infanzia, e che magari potesse premere sui ricordi dolci dei genitori. Per me questo luogo poteva avere un solo nome: il Rione Croce Bianca.   Ci volle poco ad adattarsi al nuovo contesto; il desiderio di crearmi un nuovo spazio fu certamente la forza trainante, il sorriso di Bianca – la “capopopolana” – e la voglia di passare le calde giornate di giugno fuori casa fecero il resto. “Dove sono le posate?” Con questa domanda iniziò il periodo che potrei chiamare invece “sempre e ovunque con l’odore di taverna addosso”. Qualche anno da sparecchiatoro e poi l’ingresso ufficiale nel mondo dei grandi: la cucina. Marina, Mario, Roberta sono alcuni dei nomi di persone che hanno saputo investire la loro pazienza in un ragazzino che per la prima volta si è sentito responsabile di un’attività dalla quale dipendeva la riuscita di un meccanismo più ampio. La serietà e la dedizione, i pianti e gli sfoghi di fronte ad un ordine, le tecniche e “i segreti del mestiere” che ancora oggi vengono tramandati (metti gli gnocchi nell’ultimo contenitore che si mantengono meglio, dividi prima del servizio il parmigiano dal pecorino, leggi gli ordini in anticipo e dì a Morena e Antonfranco di quanta pasta avrai bisogno”) dimostrano che in questo gioco alla fine ci si investe qualcosa che ha a che fare con il cuore più che con il corpo.

E poi Giada, Monia, Alessandra: “Abbiamo vinto la gara dei tamburini, ti piacerebbe sfilare con il pistillo d’argento sabato?”. Era il 2008, e io intimidito sfoggiavo per la prima volta con orgoglio gli abiti rionali, una sensazione che non potrò mai e poi mai dimenticare. Così come quel gareggiare dei convivi che abbiamo vinto dove, sotto l’impulso di lei che tutto immaginava e ancor di più realizzava, sono stato messo per la prima volta sopra e non vicino al cibo. “Simone, devi splendere, mi raccomando!” (Grazie, spero un giorno di avere un briciolo delle tue capacità). Esperienze queste che hanno fatto di un ragazzino alle prese con il mondo un giovane adulto, (re)integrato in un contesto dove le differenze vengono spesso azzerate o portate ai minimi termini e dove tutti sono sempre necessari ma mai indispensabili. A questo rapporto di libera dipendenza e di mutuo aiuto che oggi devo molto di ciò che sono; ai tanti momenti di confronto e di cooperazione devo invece gli amici, quelli più cari, che ancora oggi mi accompagnano e che leggono con tenerezza insieme a me il tempo che c’è stato e che ancora ci sarà. “Confronto” si potrebbe chiamare l’ultimo periodo di questa avventura ancora tutta da scrivere. Confronto con il pubblico su di un palco per portare il sorriso a chi combatte quotidianamente con dei mostri terribili, confronto con i clienti che oggi riscopro in quanto Caposala o coordinatore del Chiostro (Priore concedimi questa nomina!!), ma soprattutto confronto con chi ancora oggi decide, nonostante tutto, di restare. 

Le esperienze di comunità innescano meccanismi che sanano le ferite dei singoli e contribuiscono all’adozione di una direzione comune che, perfettibile nel suo percorso, si estende sino a diventare una giusta causa, valore, principio e perché no, una rivoluzione gentile.   

Dedico queste poche parole ai miei amici, ai figli che forse un giorno avrò e ai nuovi popolani, affinché possano anche essi un giorno sentirsi a casa dentro queste mura. 

Di Simone Felice

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